La tradizione dolciaria siciliana è conventuale, ha cioè radici profonde che affondano nei conventi e nei riti religiosi. Per secoli, infatti, sono state le suore di clausura a custodire e tramandare le antiche ricette tipiche siciliane con cui preparavano deliziosi manicaretti per le ricorrenze religiose e non solo. Proviamo, però, ad andare ancora più indietro nel tempo. La Sicilia, grande isola al centro del Mediterraneo, è sempre stata un crocevia di popoli e la pasticceria siciliana è il frutto dell’incontro di culture e usanze diverse, espressione di una stratificazione culturale unica già visibile nelle sue città e nei suoi monumenti.
Ci troviamo in Sicilia orientale, intorno all’anno 1000 a. C. Qui erano stanziati i Siculi, tra i primi abitatori dell’isola e popolo di agricoltori, pastori e cacciatori. Essi avevano l’abitudine di mescolare il frumento con il latte e il miele per creare una sorta di cuccia (oggi dolce tipico della festa di Santa Lucia) ante litteram che simboleggiava la ricchezza e l’abbondanza, forse il dolce siciliano più antico in assoluto. I Greci, giunti in Sicilia nel periodo della colonizzazione (VIII sec. a. C.), portarono con sé ulivi, viti, mandorli e nuovi metodi di coltivazione. Nell’alimentazione, ampliarono anche gli usi del farro, fino a quel momento utilizzato solo per la preparazione del pane, che divenne ingrediente della pasta frolla. Come racconta Antonino Uccello nel suo libro Pani e dolci di Sicilia, «durante le Tesmoforie, feste annuali che si celebravano in Sicilia in onore delle due grandi Dee nel periodo primaverile, venivano offerte delle focacce di sesamo e miele, chiamate mylloi, che raffiguravano gli organi femminili».
Il celebre filosofo greco Platone, vissuto nel V sec. a. C., nel corso dei suoi viaggi si fermò anche in Sicilia, ospite del tiranno Dionigi Il Vecchio. Ebbe la possibilità di sperimentare la cucina siciliana dell’epoca e, in particolare, la pasticceria, caratterizzata da dolci a base di miele e mandorle, che definì elegante e raffinata, migliore espressione dell’arte culinaria dell’epoca. Il sofista Alcifrone ricorda con gusto «una torta che prende il nome da Gelone il Siceliota, ornata con prelibatezze di pistacchio, datteri e noci, alla vista di cui il mio cuore si dilettava e la bocca aveva l’acquolina […]».
In età romana, la Sicilia fu il granaio di Roma: i Romani introdussero nuove tecniche per la lavorazione del grano e diffusero in Sicilia l’uso di formaggi dolci e l’abitudine di cuocere il pane sulla brace e inzupparlo nel vino mielato, una sorta di antico babà. Come riportano Catone nel De agri cultura e Marziale in uno dei suoi versi, nella Sicilia orientale si preparava una particolare focaccia dolce, la placenta, a base di farina, formaggio e miele: «[…] misi Hyblaeisis madidas thymis placentas» ovvero focacce fragranti con timo ibleo. Sempre a Catone e anche ad Apicio si attribuiscono testimonianze relative al mustaceus, un dolce simile ai nostri mostaccioli e preparato con farina, mosto e miele.
Durante la dominazione araba, a partire dal IX sec., i Siciliani impararono a conoscere, tra le altre cose, la canna da zucchero (che, però, cominciò a essere usata nelle preparazioni gastronomiche solo nel periodo del regno di Federico II), la cannella e l’anice. Scoprirono la Cubbaita (Qubbayt), un torrone molto dolce preparato con miele, semi di sesamo e mandorle; i Nucatuli, in arabo “Nagal” (frutta secca, confettura, dolce secco); la Cupita o Copata, un altro tipo di torrone molto duro, fatto con nocciole, albume d’uovo, zucchero miele e amido. Gli Arabi si cimentarono anche con il sorbetto, amanti com’erano delle essenze, e ne crearono di diversi gusti, soprattutto alla frutta.